venerdì 26 dicembre 2008

L'ultimo pezzo di un ponte verso un futuro che ancora non si è capito

La cosa dunque doveva diventare segreta (la cosa quale?). Non ne ero molto convinto, ma l'unico modo per non entrare in conflitto col mondo esterno era quello di difendere il mio spazio. Senza farci entrare più nessuno. Era un posto riservato. Giusto per uno. Nemmeno per due come avevo creduto quando la persona che amavo ci era voluta entrare per forza.  Ed io ripresi a tessere i miei scenari per me stesso. Non mi sentivo egoista. Mi sentivo un privilegiato ed ero contento di essere me stesso. Così potevo valutare in anteprima le mie stesse idee e seguire i miei percorsi immaginativi verso assurdi luoghi inesistenti. Ora, lontano dalla confusione del mio primo distacco dal mondo sociale, mi resi conto che forse avevo finalmente sistemato i miei conti con ciò che scrivevo. Avevo rinnegato tutto. Anche il fatto stesso di aver scritto. Adesso ero oltre. Dovevo semplicemente smetterla di farmi coinvolgere emotivamente. Però, pensai, se quello che devo fare è nascondere al mondo esterno che scrivo, la mia vita, questa vita, quella esteriore, a che cosa mi serve? A questo punto quello che mi mancava per realizzare il mio progetto di vita era la mia lurida e minuscola stanza d'albergo alla Fante o in subaffitto alla London. Certo che portarci la mia famiglia non sarebbe stato il massimo. E poi di che avremmo vissuto? Però che volete? Uno un cazzo di progetto di vita, pur di merda che sia, non può neppure averlo? Deve fare quello che deve fare e basta? Quello che gli è richiesto? Quello che il mondo si aspetta? Ero molto annoiato e non mi andava di creare complicazioni solamente per vivere come avrei voluto. Preferivo annoiarmi per il resto della vita rinunciando a seguire quella che ero convinto fosse la mia strada. Pensai che tanto le occasioni prima o poi ci sarebbero state. Avrei conciliato le due cose, vivere e scrivere. Pensai che ora per un po' mi sarei concesso più alla vita che alla scrittura. Non doveva essere male. Avevo una moglie troppo bella. Una figlia troppo bella. Un lavoro che mi permetteva di vivere senza grossi sforzi. Poi col tempo avrei avuto una casa mia. Forse una mia stanza dove mettere la mia roba, il mio computer, la mia scrivania. Forse un po' di soldi da investire. Nel frattempo avrei continuato a scrivere. Roba sempre migliore. Avrei migliorato lo stile, ponderato di più sulle trame dei testi e cose del genere. Quando mi sarei sentito pronto avrei lanciato alla storia il primo testo del più grande scrittore vivente. Ero io. Non potevo sbagliarmi. Ma c'era qualcosa che non andava. Come sempre. Cominciai lentamente a non sentirmi più me stesso. Mi concentrai sul lavoro. Sull'accumulo del denaro. Mi laureai senza volerlo veramente. Cominciavo a ricoprire dei ruoli. Ad essere assorbito da questi. A non riuscire a divincolarmi. Non mi sentivo più libero. Neanche quando scrivevo. La mia mente si stava schematizzando. Non concepivo più la follia. Mi sembrava sciocca. Non concepivo più i colpi di testa, le irrazionalità. Non capivo più a che cosa potesse servire scrivere una mejfy. Peggio ancora un romanzo. Che valore potesse avere. Tutto si stava schiarendo nella mia mente. Oppure tutto si stava oscurando. In ogni caso più capivo e più non capivo che cosa avessi fatto a fare certe cose. Anche se le avevo fatte il giorno prima. Mi sembrava di girare a vuoto, senza concludere niente. Era quello che avevo sempre fatto, ma la differenza era che non mi stava più bene, adesso. Prendemmo finalmente casa nostra. La stanza in cui avrebbe dovuto esserci la mia roba e quello che avevo scritto non c'era, ma andava bene lo stesso. Gli zaini con tutti i testi che avevo steso dall'età di dodici anni finirono relegati in garage in un'umida cantina dove non c'era neppure la luce. Questo perché in casa ci serviva spazio per un enorme corredo di merda che non avremmo mai usato in tutta la vita. Occupò un intero armadio e pace all'anima degli spazi mancanti. Quando ero piccolo e cominciai a scrivere pensai che un giorno avrei avuto una libreria con tutti i miei testi pubblicati. Nella mia folle fantasia credevo che sarei riuscito a riempirla tutta intera soltanto con quello che avrei scritto. Neanche fossi Stephen King che scrive venti libri l'anno. Adesso una libreria ce l'avevo. Pubblicato non avevo pubblicato un cazzo. Tranne le tre sottilissime copie dell'antologia che conteneva cinquanta poesie di altri e una sola mia. Non credo che sarei risultato molto intelligente a mia moglie ed a chiunque a metterci dentro le copie stampate in A4 di quello che avevo scritto. Dopo tutti i trascorsi conflittuali su quello che avevo scritto con ogni persona che avevo conosciuto, tra l'altro. Pensai che quella fantastica idea che mi aveva seguito per anni era da bocciare. Era molto più interessante l'umida cantina del garage. Nel frattempo avevo scritto un libro la cui storia mi era venuta in sogno una notte ed il primo testo veramente di genere che fossi riuscito a mettere insieme. Era un pulp a tutti gli effetti. Anch'io potevo scrivere cazzate a cui si poteva dare una definizione. Pensai e adesso che farò? Continuerò a scrivere o sono finalmente soddisfatto? Dopo un testo di genere era come se avessi provato l'unica droga che mi mancava, nella vita. Mi risposi se mi viene continuo se no vaffanculo a voi e a chi cazzo vi ha fatto leggere tutta la roba che vi ha fatto leggere.  Erano passati tre anni ed in tutto i sette in cui avevo scritto tutto quello che uno scrittore medio scrive in una intera vita. Io la mia ce l'avevo tutta di fronte. Ed ero finalmente libero dalla preoccupazione che sarei morto presto perché da quel giorno in poi, almeno in fatto di materia letteraria, mi sarebbe andato bene morire in qualsiasi momento. Bene. Adesso mi mancava soltanto di capire quando e come cazzo avremmo usato il fantastico corredo.      

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